I giornali letterari del Settecento (1940)

I giornali letterari del Settecento, «La Ruota», s. III, n. 7-8, Roma, ottobre-novembre 1940, poi in W. Binni, Preromanticismo italiano, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1948, 1959; Bari, Laterza, 1974; Firenze, Sansoni, 1985, quindi ripubblicato in «Rassegna lucchese», n. 1, Lucca, gennaio 1950, e in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, Sansoni, 1951, 19693.

I GIORNALI LETTERARI DEL SETTECENTO

In questa bella biblioteca di Lucca, ricca di ricordi settecenteschi, il piacere insolito di tagliare il primo fascicolo del Giornale dei letterati di Pisa, 1771, ancora intonso, mi riporta a un motivo di curiosità infantile, di curiosità appassionata per la vita minuta, quotidiana dei tempi lontani della storia. Separavo allora con cura i particolari del costume, l’aria di quelle età da tutto ciò che di grandioso vi era avvenuto, allontanavo scrupolosamente le tentazioni dei colori piú illustri, dei quadri violenti ed oleografici. A poco a poco la fantasia infantile cedeva ad una specie di incanto oggettivistico, tagliava quello spicchio di vaga realtà, lo spianava secondo il ritmo piú stento e rallentato, lo impastava sui dati immaginari della memoria con i risultati di una paziente dissociazione di spazio e di tempo: e mi trovavo cosí come adesso con la voglia di stagnare in un silenzio diverso da quello in cui di solito viviamo. Cosí adesso la resistenza opposta dall’ottima carta del Giornale dei letterati allo scorrere del tagliacarte mi insinua senza piú difficoltà in quel mondo, in cui la letteratura e il giornalismo letterario nel senso piú generico furono amati con passione calma e curiosità soddisfatta.

«Non si può negare che questo non sia il secolo dei giornali, delle novelle letterarie, dei dizionari e di simili opere che lusingano di condurre alla cognizione di molte cose con poca fatica». E poi: «Fra tutti i diversi ritrovamenti, che per dilettare gl’ingegni, per facilitare gli studi, e per promuovere le buone lettere, ne’ moderni illustratissimi tempi fur posti in uso, niuno ve n’ha certamente che né per riportati applausi, né per opportuni giovamenti con l’istituzione dei giornali in verun modo comparare si possa». E ancora: «Nulla meglio di un giornale può formare nella mente quella università di cognizioni, che in un uomo di lettere si richiede, cognizioni delle opinioni che insorgono, degli errori che si dileguano». Era il motivo del secolo, l’orgoglio bonario di una società che sotto i suoi vari strati riconosceva un ricorso comune alla letteratura, all’informazione di cose letterarie, scientifiche, di «cognizioni» come ad una comune panacea, ad un tempio non esclusivo, ma sempre piú riconosciuto di una fede onesta e minuziosa. E se pure sotto il volto del letterato troviamo di solito la sagoma del nobile, si tratta però di nobili intesi a salvare la loro preminenza piú con l’aristocrazia della erudizione che in una gara di potenza con la borghesia nascente. E cosí, se il luogo comune riguarda i «salotti», il motivo piú profondo, la preparazione piú pura e disinteressata era nei giornali letterari, in quei bei fascicoli cosí pieni di notizie, di recensioni, laboriosi ed onesti fondatori di una unità europea che tendeva ad allargare una comunità intellettuale, senza naturalmente prospettarsi neppur di lontano una qualsiasi comunità politica. Anzi, a rileggere queste riposate, grigie gazzette letterarie che si ornano spesso di titoli europei per il loro spregiudicato interesse alle cose dei dotti (Grande giornale d’Europa, Giornale oltramontano, ecc.), colpisce, sotto i motivi della storia civile e militare del Settecento, la minuta presenza di corrispondenze da lontane città, come in una perpetua pace, di fatti particolarissimi, di avvenimenti accademici, di laterali scoperte scientifiche. Intanto l’Europa era mossa dalle guerre di successione, dei sette anni, ma ciò era affare dei principi e dei generali, non dei letterati che conoscevano, oltre le tradizioni particolari, un unico paese fatto di accademie, di società scientifiche, di bollettini, di rendiconti: infuriava la guerra dei sette anni, e si poteva leggere questa notizia da Ollmütz: «Attende attualmente il sig. Butkardo ad illustrare il tesoro nummario del Regno di Boemia e questa sua illustre fatica è tanto inoltrata che in breve la potrà dare alle stampe».

Questa unità culturale su di una base erudita è ancora precedente al vero e proprio periodo illuministico in cui altri motivi ideologici concorrono a sollevare quella società di «eruditi» a volontà di cittadini, di legiferatori, di missionari della ragione civilizzatrice. Ma già dopo un primo momento di erudizione gesuitica e benedettina – che in Italia produsse il primo Giornale dei letterati di Roma (1668)[1] – il gusto di una erudizione senza linea di problemi centrali trova però la forza di una fede nella costruzione periferica e orizzontale di una cultura europea slacciata da qualsiasi vero presupposto trascendente, appoggiata ad una sicurezza ottimistica, alla poeticità del lavoro intorno alle cose, quando la scienza manteneva un sapore, una violenza meno asettica e cristallina della grande scienza posteriore. «Nel secolo felice in cui viviamo, il genio delle lettere rapisce talmente tutte quelle persone, che si credono in debito di far buon uso del loro intendimento e del loro tempo, che non è meraviglia se giornalmente ne risultano prove cosí evidenti nella molteplicità degli eruditi e curiosi libri che si danno alla luce in tutte le parti della nostra Europa».

È su questa base europea che si assiste alla nascita di quella erudizione il cui oggettivismo è la conferma della vittoria, mediante una fede candida nella verità, sui puri fatti fino allora amati solo perché distraggono dalle idee e ora invece considerati come l’avvio ad una serietà, ad una onestà che, mentre scruta e avvalora le tradizioni, dà all’Europa settecentesca una nozione di letteratura che unisce sul piano della sincerità i riconoscimenti scientifici e le indagini piú propriamente letterarie. Letterato è per il primo Settecento l’uomo che rivolge il suo interesse specifico, non dilettantesco, ad una scoperta del mondo della realtà (e perciò in questi giornali, se v’è largo posto per la storia della religione, poco ve n’è per la religione considerata in sé, non come costume) in tutti i suoi aspetti evidenti. Ma poiché questo amore della realtà nei suoi strati orizzontali nasce con l’entusiasmo della novità, in queste riviste cosí diverse dalle nostre, in cui spesso è tanto spreco di abilità e di mestiere, tanto sforzo di originalità, spira un’aria di innocenza civile, e piace quella modestia di presunzioni, quel ridursi a compiti limitati, di formiche edili, quel contrappeso cosí evidente a certe facili aure poetiche che proseguivano il dilettantismo tecnicistico del peggiore Seicento. Per un po’ di Zappi quanta sottomissione al peso di un lavoro senza risultati immediati, senza risonanza. Avveniva cosí che anche scrittori di fantasia come Zeno, Maffei sentivano una prima missione come partecipi alla costruzione di un comune edificio: le cognizioni colmavano a poco a poco l’animo dei dotti con una meticolosità che ricorda l’ammattonamento del positivismo ottocentesco, ma con una ingenuità non compromessa dalla precedenza dell’idealismo romantico. Ne veniva una scrupolosità di comptes-rendus che diffidava di ogni polemica e perfino di ogni critica, tanto che la Storia letteraria d’Italia (che riferiva antologicamente da altri giornali di Roma, Firenze, Augsburg, Venezia, Amsterdam) nasceva come giustiziera dei recensori passionali: «per cauti render certuni, i quali a solo sfogo della passione sembrano l’utilissimo uso delle Novelle sconciamente rivolgere, ed a trattenersi dal portare dei libri e degli autori loro inique sentenze, e molto piú dall’usar con inaudita franchezza villanie ed altri disdicevoli modi, sapendo che alla fine dell’anno, potrà esser censurata la loro censura, e che inappellabile non è il molesto e fiero lor tribunale». Finché anche nelle varie Novelle letterarie, Osservazioni letterarie un interesse piú chiaramente illuministico ed enciclopedico si fa luce e, fra le nitide incisioni di monete, i grafici astronomici, le notizie di storia locale, si precisa una funzione civilizzatrice, un riferimento ad una idea centrale di riforma della città dell’uomo che nelle riviste del primo Settecento mancava. E l’orgoglio della cultura europea si fortifica, i giornali letterari diventano nientemeno «le storie piú autentiche dello spirito umano», la fede nel progresso illuministico viene estesa a tutta la terra: «si può francamente dire che noi viviamo in un secolo in cui quasi in ogni angolo della terra si coltivano le scienze», mentre d’altra parte si afferma un’attenzione gelosa ai diritti italiani di fronte ad un pritaneo internazionale di dotti: «Non possiamo piú tollerare l’ingiustizia che alla nostra patria gli stranieri scrittori fanno, i quali gran vanto menano di ogni loro minima cosa, e appena si degnano di accennare cosí di volo le ricchezze nostre letterarie e sembra quasi che affettino di farci fare presso la dotta Europa la piú meschina figura».

Ma è alla metà del secolo che in Italia si assiste ad un rapido e contemporaneo sviluppo di motivi illuministici, forti della loro maturità, e di motivi preromantici, forti della loro novità, in un nesso che è meno stretto in altre civiltà settecentesche piú graduate. Si assiste come ad un raccorciamento prematuro di uno sviluppo che altrove procede piú lentamente se pure con simili coesistenze in singole personalità alla Diderot; alla precisazione di un europeismo e insieme di un italianismo ambedue di tipo nuovo di fronte all’unità erudita e alla tradizione umanistica che aveva fatto insorgere i letterati italiani contro il Bouhours. Il letterato raccoglieva quella unità di cultura formata dai dotti e dagli eruditi, vi portava le fertili idee dell’illuminismo e d’altra parte veniva presentando uno stimolo al concreto, all’individuale non puramente ragionevole, ad un nazionalismo per eliminazione di pregiudizi locali e regionali, che già attende la soluzione romantica. E insieme sollevava alla dignità della scienza e della letteratura i problemi vivi dell’economia, dell’agricoltura, del commercio.

Cosí assistiamo alla nascita del Caffè, la cui presenza in mezzo a queste riviste settecentesche appare rivoluzionaria e insieme capace di sollevare il concetto di letterato ad una pratica piena e complessa: letterato che, non sdegnoso di interessi umani e sociali, conserva alla letteratura l’università erudita del primo Settecento riconoscendola in ogni forma di sapere, di conoscenza, di investigazione del reale, ma arricchendola di precise volontà programmatiche, di intenti civili immediati e riconoscibili anche utilitaristicamente, dandole, pur sempre nella lontananza da soluzioni immediatamente politiche, il compito di migliorare la vita, di togliere ogni velo, ogni intralcio ad un progresso ancora iniziale e non corretto dalla prudenza goethiana dell’ascensione a spirale. Il letterato che si occupa di poesia, ma soprattutto di civiltà, di sviluppo umano, parte da una fede entusiastica che si vuole esaurire volta per volta nelle cose piú minute, nei consigli piú pratici, per arrivare ad una trasformazione generale delle consuetudini morali di un popolo e di una civiltà. E quel particolare coesistere di elementi illuministici in pieno rigoglio e di succhi preromantici permette una singolare durata a quel concetto di letteratura fino al primo romanticismo e al Conciliatore: è con il Caffè che si forma un tipo di giornalismo letterario, fondamentale in tutti i rinnovamenti italiani, nei momenti in cui in Italia la letteratura esce da un vero o preteso assenteismo, chiede di dirigere la vita, di impegnarsi praticamente e propone insieme una figura di letterato né arcadico né avventuroso, ma insieme attivo e disinteressato, secondo la frase del Caffè: «Ogni 1000 letterati ve ne sono 900 che lo fanno per cercare pane, fortuna e gloria; ve ne sono 70 che lo sono per assorbire le ore e non annoiarsi, ve ne sono 20 che non sono gelosi dell’ingegno altrui, ve ne sono 10 che coltivano l’ingegno per rendere se stessi internamente migliori».


1 Eco della cultura erudita del Journal des Savants.